2 luglio 2005

Come nel film «Terminal» la battaglia a lieto fine di un cittadino keniota

UN ANNO IN AEROPORTO PER DIVENTARE BRITANNICO

Nel 2004 era arrivato a Londra sicuro di riuscire a ottenere la cittadinanza.

Respinto per un cavillo burocratico

Ha tenuto duro tredici mesi nel limbo degli arrivi internazionali, impossibile partire per l’Inghilterra e impossibile rientrare in Kenya. Ha ottenuto quel che voleva, la cittadinanza inglese. Ma fino al 12 luglio, finché il nuovo status non gli verrà conferito in una cerimonia ufficiale, finché non sarà certo di varcare il controllo passaporti da passeggero e non da avventuriero, Sanjai ha deciso che vivrà com’è, apolide per scelta, e soprattutto dov’è: sulle poltroncine del gate 14, a lavarsi dietro le salette della business , a zonzo fra i nastri bagagli. «Non ci credo ancora! - saltava mercoledì, gli occhi lucidi, quand’è arrivata la lettera dell’Alta commissione britannica per l’immigrazione - Meglio essere cauti, muoversi se le carte saranno tutte a posto». Paura di violare. Sanjai ci ha convissuto troppo. Il terrore d’un altro errore, rimanere fregato per sempre. O di cascare in quell’inutile rabbia nei confronti di San Burocrazio, come la chiamava Weber, e magari perdersi in uno scatto nervoso e frantumare a pugni una vetrata che sarebbe lo sfascio definitivo d’una vita, d’un sogno, di tutto.

Il sogno di Sanjai - nato in Kenya da famiglia indiana un anno prima dell’indipendenza dal Regno Unito, perciò munito di nazionalità kenyota e, insieme, di quel passaporto di serie B che si chiama «Cukc» (citizen of the United Kingdom and Colonies) ed è la cittadinanza inglese dei Territori d’oltremare -, il suo sogno è sempre stato laggiù: in Inghilterra, dove vive una sorella, «dove un giorno voglio che mio figlio possa iscriversi all’università». Un anno fa, 28 maggio 2004, volo Nairobi-Londra, dopo i tre film proiettati durante la rotta, Sanjai atterra a Heathrow e comincia a viverne un quarto, un incubo burocratico che sembra copiato dal copione spielberghiano. Il kenyota ha scelto di rinunciare al Kenya, Paese che non permette la doppia cittadinanza.

È pronto a lasciare l’Oltremare e a mettere radici Oltremanica. Fa un errore cruciale, però: annulla il passaporto africano prima del decollo, senza sapere che quello da ex colonia non basta per un ingresso illimitato in Gran Bretagna e, soprattutto, dev’essere accompagnato da un biglietto con la data di ritorno entro sei mesi. Sanjai, quel biglietto, non ce l’ha. Non ha nemmeno i soldi per comprarselo. E così le autorità inglesi, appioppato lo sbrigativo timbro che oggi le folle dei disperati temono più d’una malattia, «prohibited immigrant», il primo di giugno lo rispediscono col suo mezzo passaporto «Cukc» a Nairobi.

Un’onta. In aeroporto, l’aspettano Rashmita e Veer, la moglie e il figlio. Vogliono abbracciarlo, dirgli che non importa, che va bene lo stesso. Ma Sanjai non attraversa la linea gialla: «Se lo faccio, ridivento solo un cittadino kenyiota. E con quel timbro addosso, rinuncio per sempre al mio diritto d’entrare in Gran Bretagna». Sanjai non ha mai visto il Tom Hanks-Victor Navorski che nel film, bloccato al Jfk di New York da una rivoluzione nel suo Paese, s’organizza una vita da Terminal raccattando monetine e pranzando coi vassoi Alitalia. Non conosce nemmeno la storia (vera) a cui Spielberg s’è ispirato: quella del curdo iraniano Merhan Karimi Nasser detto Sir Alfred, dal 1988 prigioniero della burocrazia all’aeroporto parigino Charles De Gaulle, professione psicologo ed ex dissidente, ormai un’attrazione turistica con le sue due valigie, il divanetto rosso piazzato vicino alla farmacia del terminal 1, la sua pila di libri offerti dai viaggiatori che gli chiedono anche l’autografo. Sanjai come Navorski come Sir Alfred.

In questi tredici mesi, la sua vita è un film che somiglia a un’altra vita. Mangiare, mangia i piatti indiani che Rashmita gli cucina e gli porta da casa: «Senza, impazzirei». Chiacchierare, chiacchiera coi negozianti del tax free : «Uno per uno, conosco loro, gli spazzini, i poliziotti, i funzionari dell’immigrazione. Conosco tutti». Per due volte, riceve e cortesemente respinge gli emissari dell’ambasciata britannica a Nairobi che vogliono spiegargli la dura battaglia politica che, proprio sull’immigrazione, il governo Blair sta combattendo: esca di lì, mister Sanjai, venga con noi, la legge sui «Cukc» è cambiata dal 2003, lei può farsi promuovere cittadino di serie A soltanto se... «La vita è stata dura, qui. Potevo dormire nella zona transiti o dove c’era posto. La gente con me è stata gentile: chi mi dava da mangiare, chi dei soldi. Mi è mancata la mia famiglia. Ma tutto questo, l’ho fatto per loro».

Lieto fine, come al cinema: il volo 493 da Zanzibar, l’altro giorno, e quella busta che era una dichiarazione di ragionevolezza degl’inglesi. «Ora Sanjai - ha scritto il New York Times che ha raccontato l’epilogo - diventerà un british uguale al Principe Carlo». Bel finale d’una trama che ormai sta diventando un serial, nelle migliaia d’atterraggi in giro per il mondo: solo a Heathrow, ha rivelato l’estate scorsa un funzionario alla Bbc , ci sono «sicuramente decine di senzatetto», d’apolidi, d’esuli, di contestatori che hanno piantato le tende in aeroporto. Il più famoso di loro, un certo George di cui circola l’occhialuta foto sul web, è un ragazzo che manca da casa da due anni e mezzo. Al terminal di Londra, per assistere questa gente, l’associazione Travel Care ha anche aperto un ufficio: «In aeroporto ci sono wc puliti e acqua calda - spiega un angelo della carità aviatoria -. Perché mai questa gente dovrebbe andare a dormire in un lurido sottopassaggio?».

Francesco Battistini

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