23 aprile 2006 L'avvocato: "Processo caratterizzato da lacune immense" 15 ANNI IN CARCERE PER UN OMICIDIO MAI COMMESSO Domenico Morrone, 42enne di Taranto, chiederà TARANTO – Un risarcimento tra gli 8 e i 12 milioni di euro. Sarà questa la richiesta allo Stato di Domenico Morrone, quarantaduenne di Taranto, per essere stato condannato a 21 anni di reclusione (15 dei quali già scontati: 11 e mezzo in carcere e il resto in semilibertà) per l’omicidio di due minorenni mai commesso. Dopo quindici anni dall’arresto l’uomo è stato assolto dalla Corte d’Appello di Lecce, al termine del processo di revisione, “per non aver commesso il fatto”. LA STORIA – Morrone era stato condannato a 21 anni di reclusione nel 1991 perché, secondo l’accusa, aveva sparato a due minorenni fuori dalla scuola media “Maria Grazia Deledda”, alla periferia di Taranto. Il movente era un litigio avvenuto con uno dei due ragazzi qualche settimana prima, nel quale Morrone era rimasto ferito. Inoltre, secondo una testimonianza in seguito ritrattata, l’uomo aveva anche minacciato i due giovani, ritenendoli responsabili del proprio ferimento. L’EPILOGO – “Tutto falso. - ribatte il difensore dell'imputato - Noi abbiamo provato che il duplice omicidio fu compiuto per vendicare lo scippo che una donna aveva subito la mattina del delitto e che, secondo quanto è stato detto nel processo, era stato compiuto dai due ragazzini poi uccisi”. Hanno collaborato all’assoluzione di Morrone anche il collaboratore di giustizia Saverio Martinese e l'ex 'pentito Alessandro Ble, che hanno dichiarato di essere certi che l’imputato fosse innocente e di aver dedotto, grazie alle notizie raccolte durante il processo, il nome del vero colpevole, il figlio della donna scippata. Il vero assassino è già in carcere, condannato all’ergastolo per altri due delitti. “LACUNE IMMENSE” – “Questo processo è stato caratterizzato da lacune immense – è la denuncia dell'avv. Defilippi, uno dei due legali di Morrone - e i giudici di merito non hanno mai tenuto conto dell'alibi che Morrone aveva, che era stato confermato sin dal primo annullamento con rinvio della sentenza da parte della Cassazione”. L’imputato aveva infatti sempre affermato di trovarsi, al momento dell’omicidio, nell’appartamento dei coniugi Masone, che avevano confermato il suo alibi e per questo erano stati condannati per falsa testimonianza, così come la madre del giovane, che aveva riferito la stessa circostanza. “Queste persone – commenta l’avvocato – sono cadute nella fossa dell'inferno solo per aver detto la verità”. Simone Storti |
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